Riflettendo
sulla vasta e spesso "consumistica" produzione letteraria del nostro
tempo, sulla sua qualità e il suo rapporto con le richieste dell'industria
editoriale, ben conscia delle potenzialità economiche del mercato; sullo
spazio riservato ai classici (in ogni senso e di ogni tempo) e in particolare
ai greci e ai latini; sulla relazione di questi fenomeni con i programmi e la
pratica didattica nelle scuole e nelle università; sulla competizione della
scrittura con la televisione e le altre forme di comunicazione di massa; sul progressivo
degrado (e proprio nel tempo cosiddetto dell'informazione) delle conoscenze, delle
categorie concettuali e degli strumenti critici necessari per pensare e per capire
il mondo, se non per trasformarlo... mi sono chiesto perché e come leggere
e tradurre oggi un "classico", uno scrittore greco o latino di duemila
anni fa (ma la questione si può forse porre anche per un indiano o cinese
o sumero ...). I nostri classici, si dice, sono depositari di contenuti concettuali
e morali, e di raffinate lezioni formali, di portata "universale", eterna
forse, e quindi sono anche moderni (ma qui non voglio addentrarmi nella connessa
tematica, di marxiana memoria, del rapporto fra struttura e sovrastruttura in
relazione alla produzione artistica) e costituiscono per noi i documenti delle
prime radici, dell'originario patrimonio genetico di una civiltà che si
è sviluppata intorno al bacino del Mediterraneo, che si è largamente
estesa a quasi tutte le regioni d'Europa, a continenti e paesi oltre gli oceani,
e che oggi è sbrigativamente e sommariamente detta "occidentale".
Pertanto questi autori e i loro testi (o quello che ne resta) sono parte essenziale
e fondante della nostra storia e identità collettiva e individuale e, più
in generale, come avviene del resto per tutte le culture, del patrimonio complessivo
dell'umanità. In un'epoca come la nostra, così frastornata da rumorosi
consumi - anche letterari - e così pericolosamente incline alla perdita
di memoria e di consapevolezza dei propri "valori", come se tali conquiste
non avessero bisogno di una faticosa, e insieme gioiosa e feconda, riscoperta
quotidiana per riappropriarsene di continuo e mantenerli in vita, la voce dei
grandi classici greci e latini fa giustizia di ogni fatuità, moderna o
postmoderna che sia, e riduce al silenzio l'infinito magmatico brusio degli sciami
di parole consunte, della giornaliera profluvie di comunicazioni spesso degradate
(e degradanti) o prive di significato ... e parla, dice finalmente "qualcosa",
qualcosa che resta nella mente e nutre di cibo sostanzioso gli animi confusi,
spesso smarriti e scontenti del loro presente.
Se è vero infine
che l'odierno modo di vivere e le sue laceranti contraddizioni generano, invece
di un processo di avanzamento versi livelli superiori di civiltà e di benessere,
insoddisfazione ed ansia crescenti, profonde ingiustizie, disagi e infelicità
che sembrano insanabili, allora per dare (o ridare) vita e vitalità a un
mondo che appare sempre più spento e incapace di elaborare un progetto,
un'idea generale di ciò che vuole essere, teso solo, dietro una maschera
ipocrita di modernità ed efficienza, a destrutturare, rinnegare o ignorare
in nome del profitto economico le grandi acquisizioni che la storia antica e recente
ci ha consegnato, in una furia collettiva di negazione e di autoerosione civile,
morale e culturale, forse si può ripartire da un recupero della letteratura
e del pensiero dei classici, che consentono, saltando le contorte e spesso schizofreniche
elucubrazioni di certa modernità, di risalire in modo più schietto
e diretto alle fonti di quei valori e di quelle conquiste, che innervano in profondo
la vita degli uomini, rinunciando alle quali non si può che avviarsi più
o meno rapidamente verso la barbarie.
Questa preziosa eredità di
riflessione, di umanità e di poesia, oggi conosciuta e amata quasi esclusivamente
dagli specialisti (che ovviamente i classici sanno leggerli nel testo originale)
o superficialmente, stancamente e frammentariamente visitata nella pratica scolastica,
deve poter rientrare nelle consuetudini di lettura anche degli "italianisti"
e nella cerchia di un pubblico più ampio ancora (coloro che il latino o
il greco non li sanno o non li sanno più o non li sanno abbastanza), a
patto che si presenti con caratteristiche che ne rendano la fruizione possibile
e magari attraente: intento dunque divulgativo, che è un invito alla scoperta
o riscoperta, ma anche a un rispetto del significato complessivo delle opere dell'antichità
maggiore di quello che di solito il tradurle ha comportato finora. Del resto ogni
traduzione in sostanza risponde, o dovrebbe rispondere, prima di tutto, proprio
a un'esigenza di divulgazione nella fedeltà.
I classici, ma qui
penso specificamente ai poeti (e in particolare a Orazio, Virgilio e Lucrezio,
di cui mi sto occupando), sono stati tradotti numerose volte, anche da illustri
latinisti e grecisti, dotati di competenze e conoscenze specialistiche indiscutibili.
Ma quasi tutte le traduzioni che sono riuscito a consultare mi sono apparse insoddisfacenti:
non parlo naturalmente delle cosiddette traduzioni "di servizio", finalizzate
alla comprensione letterale (utilissime peraltro, soprattutto nell'uso didattico),
ma di quelle letterarie, che ambiscono, talvolta esplicitamente, a rendere con
dignità per l'appunto "poetica", non solo i contenuti, ma anche
la "poesia", la "bellezza", dell'originale. Pur presentando
infatti, più o meno spesso, alcune soluzioni accettabili, e talvolta (molto
più raramente) felici, di singole espressioni e di singoli passaggi del
testo, risultano nel loro complesso irrimediabilmente pesanti, involute, oscure,
e volte, nonostante le buone intenzioni, a tradurre i meri contenuti narrativi
e concettuali (e non sempre riuscendovi con esaustiva chiarezza e precisione),
ma incapaci di rendere le sfumature, le connotazioni implicite, le allusioni o
i giochi dell'ironia, il tono e il clima psicologico e morale, il ritmo e la musica
del verso, ecc., e soprattutto immemori del fatto che tradurre poesia vuol dire
fare poesia, trasferire e trasmutare un testo poetico scritto in una lingua ed
entro un contesto storico determinati, in un altro testo, scritto in un'altra
lingua, in una diversa situazione socio-storica, senza per questo perdere del
tutto la sua natura poetica, e che perciò presenti anch'esso i caratteri
inconfondibili della poesia, cercando in qualche modo di ricreare, quasi in una
gara di emulazione, quella del testo di partenza, pur con strumenti, modalità
e "suoni" differenti. In una condizione, per così dire, di autonomia
tecnico-linguistica ed espressiva non rigidamente subordinata alla lingua e agli
aspetti esteriori delle forme (metriche, sintattiche, ecc.) originali, ma che
consenta anche (non sembri una contraddizione) un sostanziale avvicinamento agli
esiti "d'arte" del poeta tradotto, maggiore di quello raggiunto da una
semplice trasposizione letterale o da una traduzione non attenta alla totalità
e complessità della sua ispirazione e della sua sensibilità. Gli
evidenti rischi di soggettività e arbitrarietà di tale operazione
non sono mai del tutto esorcizzabili, ma possono essere posti sotto controllo
e limitati da un vigile spirito critico e da un'approfondita conoscenza dell'autore
e della sua opera. Occorre dunque costruire una poesia che non sia quella del
traduttore (che si farebbe in questo caso poeta in proprio), ma quella dell'autore
"trasumanata" in quella del traduttore, complice e medium, consapevole
delle proprie scelte linguistiche e stilistiche, criticamente adottate proprio
per "rievocare" e riportare in vita (quella di una lingua viva) quanto
più è possibile della poesia originaria e della sua intima energia.
Il traduttore deve riuscire a calarsi nell'autore, un po' come l'attore nel personaggio,
assumerne il punto di vista, sentirne in sé gli umori ed i pensieri, i
dubbi e le convinzioni, le speranze, le illusioni, le amarezze, gli slanci, ecc.
Insomma ciò che l'esperienza di vita e la riflessione hanno depositato
nella coscienza (e magari nell'inconscio) di un altro uomo, spesso molto lontano
nel tempo e nello spazio. Un'identificazione assoluta sarà ovviamente impossibile
e il traduttore-attore non potrà mai scomparire del tutto, non potrà
che dare la propria versione-interpretazione, filtrata dalla propria sensibilità
e personalità, dal proprio modo di cogliere e tradurre l'"anima"
di quel poeta e di quella poesia (ma un'anima, comunque, bisogna pur saperla individuare
ed esprimere!). Anche la traduzione allora, e proprio per essere fedele, per restituire
il testo di partenza con la massima approssimazione, per avere un'"anima",
deve presentare i requisiti della poesia: oltre al significato, il più
possibile aderente all'originale, anche un significante, una forma, che sia "poetica",
frutto di un'artificiale e consapevole elaborazione sintattica, lessicale, stilistica,
metrico-ritmica e musicale, in modo da offrire al lettore anche quell'aumento
e intensificazione di senso e il piacere peculiare che dalla poesia ci si attende,
connessi al fatto che ai contenuti semantici le operazioni formali proprie della
poesia conferiscono, come ormai tutti sanno, un "sovrasenso", un arricchimento
di conoscenza, un di più di talora quasi impalpabili acquisizioni, che
si realizza infatti soltanto nella poesia e nelle sue peculiari modalità
di trattamento del materiale linguistico. In mancanza o in carenza di ciò
anche le più accreditate traduzioni dei poeti antichi oggi reperibili provocano
nel lettore, pur volonteroso, un senso di estraneità e di fatica, se non
di repulsione, una perdita di motivazioni e di interesse per il testo e per l'autore,
e si può dire che di fatto siano per lui illeggibili. Il danno che ciò
comporta per il profilo e la ricchezza culturale e umana complessiva delle nostre
società e per la funzione formativa del nostro patrimonio letterario e
delle istituzioni scolastiche è purtroppo sotto gli occhi di tutti, o almeno
di coloro che non vogliono ignorare, né rinunciare a contrastare gli inquietanti
e, credo, innegabili fenomeni di degrado etico e civile della nostra epoca.
Per questi motivi ho tentato una nuova traduzione di quei poeti latini a me cari,
nella speranza di suscitare l'interesse e magari l'entusiasmo dei lettori per
questi grandi della poesia universale, adottando un linguaggio, con ovvie differenziazioni
a seconda degli autori e delle opere, che fosse comprensibile e riconoscibile
dal lettore del nostro tempo come ancora appartenente al proprio patrimonio culturale
e letterario (anche se oggi questo appare sempre più tristemente lontano
dalla coscienza e dagli interessi correnti), e quindi come lingua della poesia,
certo non sempre facile e immediata, ma nel complesso accessibile ai più.
I frequenti riferimenti al bagaglio di conoscenze tecniche, storiche, filosofiche,
mitologiche, religiose, politiche e di costume, di cui questi poeti si servono
per raccontare, a volte in forme metaforiche o allegoriche, la propria visione
del mondo e per esprimere sentimenti e concetti, naturalmente non potevano, né
dovevano, essere evitati, ed essendo spesso fortemente ellittici e alludendo a
luoghi, situazioni, nozioni, eventi e personaggi che i contemporanei riconoscevano
senza difficoltà, ed ora sono per lo più ignorati, potevano costituire
una zavorra, un ostacolo alla scorrevolezza della lettura e alla godibilità
del testo. Pertanto ho cercato in qualche occasione di renderli espliciti e un
po' più comprensibili, quando era possibile farlo senza cadere nel commento
o in didascalismi pedanti interpolati al testo, sapendo che in questi casi è
comunque indispensabile, per chi non sa già tutto della storia e della
mitologia antiche, e se vuole completare le informazioni fornite dal testo, poter
consultare qualche buon repertorio storico o mitologico, o un glossario, o disporre
di un essenziale apparato di note e commenti a piè di pagina.
Scartata ovviamente l'ipotesi di una traduzione in prosa (onesta, ma incompatibile
con gli scopi che mi proponevo), il problema fondamentale è stato quello
delle scelte metriche, dato che il verso, cioè la poesia, che ha sempre
una sua musica, un suo ritmo, per quanto vario o imprevedibile o addirittura nascosto
possa essere, geneticamente diverso da quello della prosa, si lega ai generi,
ai temi e alle tradizioni formali e culturali a cui un poeta fa riferimento. A
parte le incertezze finora irrisolte e probabilmente irrisolvibili del nostro
modo usuale di leggere la metrica quantitativa classica, non mi è sembrato
scientificamente corretto né sensato tentare di ricalcare meccanicamente,
con minore o maggiore approssimazione, ritmi e scansioni delle strofe o dei versi
latini (come di farne assurdamente corrispondere il numero a quello dei versi
italiani). Non solo per il fallimento, credo indiscutibile, dei passati tentativi
di metrica "barbara", ma soprattutto perché al moderno lettore
(colto o meno che sia) questo tipo di "imitazione" avrebbe dato inevitabilmente,
a mio parere, una forte sensazione di estraneità, di artificiosità
forzata e gratuita, non generata da una necessità espressiva, né
dal bisogno di identificare e calare il proprio discorso nelle forme, per quanto
varie e "aperte", di una ritmicità e di una musicalità
universalmente note e condivise (dopo tutto continuo a pensare che la poesia sia
fondamentalmente comunicazione), sulle e nelle quali misurare la propria sensibilità
e visione del mondo, il suono e la pronuncia della parola, e riconoscere la natura
poetica di un'opera. Si trattava perciò di tradurre, cioè di trasferire
in modi e misure del nostro tempo, oltre la lingua, lo stile e le intonazioni,
anche la musica del testo poetico, rinunciando per sempre ai moduli antichi, o
alla loro imitazione puramente esteriore, ormai non più percepibili e giustificabili
al nostro orecchio, per cercare metri e ritmi più vicini a noi, e dunque
della tradizione accentuativa romanza, che non stonassero con i contenuti concettuali
e sentimentali, ma che anzi li incarnassero ravvivandoli e potenziandoli (come
ovviamente accade nell'originale), e che avessero la capacità e la flessibilità
necessarie per rendere con modalità più riconoscibili e familiari
anche le sfumature, le allusioni, le ironie sottili, le volute ambiguità,
o l'energia, lo sdegno, la suavitas e la gravitas: la varietà dei toni,
i diversi umori insomma, con cui un poeta affronta i propri temi. Una musica dunque
che fosse percepita appunto come componente costitutiva e ineliminabile della
poesia, la quale forse, come diceva Saba del dolore, "ha una voce e non varia",
e quando c'è la si riconosce sempre.
Ho scelto quindi di affidarmi
a un polimetro (di ascendenza forse un po' montaliana, ma di gamma più
ristretta): endecasillabi, settenari, pochi novenari e quinari, molti doppi settenari
(con molta libertà nell'uso degli emistichi sdruccioli o piani) a cui nei
testi non lirici (Virgilio e Lucrezio, le Satire e le Epistole di Orazio) ho affiancato,
escludendo il quinario, e al fine di mantenere il ritmo più disteso, narrativo,
descrittivo o colloquiale degli originali, un tipo di verso lungo, costituito
da un endecasillabo seguito da un settenario (o viceversa) e più raramente
da un novenario più un settenario (o viceversa). Per coerenza con l'andamento
nobilmente tradizionale e dal sapore "antico" che il lettore opportunamente
si aspetta da un testo classico, pur se in traduzione moderna, ho invece evitato
i versi parisillabi, legati a generi e contesti culturali particolari, di solito
popolareggianti, anche se nella lirica moderna sono stati ampiamente, e credo
giustamente, riabilitati e utilizzati con successo. Le misure versali scelte si
alternano perciò variamente e liberamente secondo le esigenze espressive
e i ritmi sintattici, in una dialettica interna più articolata, agile e
ricca possibile, che dovrebbe rispondere ai gusti e alle richieste di libertà
formale tipiche della modernità, ma anche alle aspettative di compostezza,
organicità, chiarezza e complessità sintattica che la lettura di
un poeta classico comporta. Allo stesso modo ho utilizzato quasi tutti gli artifici
tipici del linguaggio poetico a mia disposizione, secondo quanto la sensibilità
suggeriva e le capacità tecniche consentivano: rime e quasi-rime, assonanze
e consonanze perfette o imperfette, spezzature (enjambement), chiasmi, allitterazioni,
iperbati, ecc., lavorati con i criteri, il gusto e il senso della misura che mi
sono sembrati i più adatti alla natura e agli scopi di questo lavoro. Ho
tenuto conto naturalmente, specialmente nei passi più ardui e controversi,
anche delle indicazioni ricavate dai commenti più dotti, precisi e dettagliati
che ho potuto consultare e del confronto, spesso stimolante, con le soluzioni
trovate da altri traduttori, in uno sforzo spero organico e coerente, compiuto
con umile audacia (mi si passi l'ossimoro), verso una più piena e rispettosa
fedeltà sostanziale alla poesia originale, e forse più corretto
anche dal punto di vista teorico e critico (diceva Ezra Pound che "il miglior
modo di tradurre è di usare il linguaggio che l'autore originale avrebbe
usato se la sua lingua fosse stata quella del traduttore"). G.Z.
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